lunedì 21 dicembre 2015

Nel Salento il modello della “ricerca partecipata” propugnato da “Epichange”



Xylella: se la scienza deve dubitare delle sue verità ufficiali
“Comunicare tutto a tutti. Abbattere definitivamente il paradigma della segretezza. Eliminare tutti gli ostacoli che si oppongono alla libera circolazione della conoscenza scientifica. Tutti i risultati della ricerca devono essere accessibili a chiunque. Sono questi, sosteneva lo storico Paolo Rossi, alcuni valori fondanti della rivoluzione scientifica del Seicento”.

Così, Pietro Greco, giornalista e divulgatore scientifico, introduce un suo pezzo dedicato alla cosiddetta “citizen science” nella versione 2.0. La citizen science è quella forma di ricerca e produzione scientifica nella quale hanno un ruolo centrale i non addetti ai lavori, i “non scienziati”, in pratica i comuni cittadini. Come si legge sul numero di Pagina 99 della scorsa settimana, di recente, questa “scienza alternativa” ha ricevuto una sorprendente, e per questo ancor più significativa, legittimazione addirittura dalla Casa Bianca, dato che l’amministrazione Obama vuole incentivare la “scienza dei cittadini” sulla base non solo dell’indiscusso valore civile e culturale della pratica, ma anche di quello economico, stimato in 2,5 miliardi di dollari l’anno.
Anche nella scienza “ufficiale” italiana non mancano correnti di pensiero che si rifanno sostanzialmente a queste espressioni avanzate del mondo scientifico internazionale, per quanto, come visto, ormai sempre più consolidate. Uno tra i più rilevanti è il modello della “ricerca partecipata” propugnato da “Epichange”, nato all’interno della rivista Epidemiologia e Prevenzione. Per quanto, in questo Paese, le teorie (e le relative pratiche) critiche sul metodo della delega in materia di salute, e quindi di sanità e di ricerca scientifica, specie sui posti di lavoro, abbiano una storia antica e nobile (un nome su tutti: quello di Giulio Antonio Maccacaro).


Il modello della “ricerca partecipata” sta trovando una sua importante applicazione in Puglia, con uno studio sullo stato di salute della popolazione di Manfredonia, città teatro, ormai quasi quarant’anni fa, di un gravissimo incidente industriale accaduto nell’impianto Enichem, dal quale si sprigionò una nube tossica contenente composti a base di arsenico. La Puglia, però, si conferma terra di grandi contrasti. Anche in ambito scientifico.

A fronte, infatti, di esperienze avanguardisticamente virtuose come quella di Manfredonia, dove ricercatori professionisti collaborano, a pari dignità, con i cittadini interessati alla ricerca, i quali, per una volta, diventano soggetti attivi e non meri oggetti dello studio, vi sono altre questioni, dall’enorme impatto civile, ambientale e sanitario, nelle quali la scienza ufficiale non si copre propriamente di gloria sotto il profilo della ricerca partecipata. A tacer d’altro.
Gli ultimi, clamorosi sviluppi della vicenda “Xylella”, nel Salento, sono noti: la Procura della Repubblica blocca le eradicazioni degli ulivi; indaga i principali responsabili della gestione della presunta “emergenza”, tra i quali tutti i dirigenti degli enti scientifici regionali che hanno diretto, per non dire “ideato”, la parte tecnico-scientifica della storia; ma, soprattutto, sovverte, sulla base di una consulenza tecnico-scientifica, tutti i veri e propri dogmi che, stando alla prospettazione accusatoria, quella stessa classe scientifica aveva imposto come verità ufficiali alla comunità salentina e, stante il rilievo nazionale della vicenda, all’opinione pubblica del Paese in generale. Verità ufficiali sulle quali si è già in parte consumato uno scempio ambientale “legale” senza precedenti in danno del paesaggio, dell’ambiente e della salute pubblica salentini, e uno ancor più colossale stava per perpetrarsi con il pianificato abbattimento di centinaia di altri monumenti naturali, quali sono gli alberi d’ulivo.

La storia giudiziaria è ancora tutta da scrivere; la verità tutta da scoprire nel processo; e tutti coloro che hanno ricevuto avvisi di garanzia sono presunti non colpevoli fino al giudicato penale di condanna. Ciò posto, anche in questa fase assolutamente embrionale del procedimento penale, qualche considerazione si può e si deve farla. La prima delle quali riguarda proprio il ruolo della scienza e degli scienziati protagonisti di questa vicenda: abbiano commesso o meno reati, siano questi, in ipotesi, di natura dolosa o colposa (e le varie ipotesi non sono proprio equivalenti, com’è ovvio), quegli uomini di scienza hanno, oggi, certamente una cospicua quantità di materiali di “autocritica”, per dirla in maniera delicata.

L’impostazione è stata quella solita, “preseicentesca”, per parafrasare lo storico Paolo Rossi su citato: quella della Torre d’avorio, dove questo trust di cervelli incubava le sue folgoranti intuizioni e da dove ne usciva per comunicare all’opinione pubblica soprattutto la sua spocchiosa irrisione verso coloro (i noti “santoni”) che, in qualsiasi modo, osassero porre qualche dubbio o domanda su quei dogmi di fede, spacciati per verità scientifiche, che oggi una Procura della Repubblica, sulla base di un suo studio, fa a brandelli. Un giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, Luis Brandeis, diceva che “la luce del sole è il miglior disinfettante”.

Quando una parte, ancora troppo ampia, di scienziati si farà una ragione di questo principio, renderà un grande servigio alla scienza e al Paese. Nonché a se stessa.

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