venerdì 13 luglio 2012

Agricoltura a zappa ed ad Aratro nel mondo antico

Agricoltura a zappa ed ad Aratro nel mondo antico

La grande distinzione di cui va tenuto conto nelle modalità delle colture agricole è quella dell’agricoltura a zappa rispetto a quella che utilizza l’aratro.

Le due tecniche non sono peraltro sempre separate, potendo convivere in certi casi sullo stesso fondo ed entro i medesimi cicli produttivi. Tuttavia, mentre l’aratro è eminentemente, se non esclusivamente, associato alla cerealicoltura, la zappa è lo strumento tipico dell’orticoltura, anche se può intervenire anche nella coltivazione dei cereali a campi aperti. Il vantaggio dell’aratro sulla zappa è di natura quantitativa, non qualitativa: accelera il lavoro, ma non lo migliora (un aratore compie a parità di tempo impiegato il lavoro di dieci zappatori). Ma, data la limitata efficacia dell’aratro antico, che rendeva possibile solo un’aratura poco profonda (intorno ai 20 cm), la zappa consentiva una migliore lavorazione del suolo, ed era comunque indispensabile per la frantumazione delle zolle, e anche per una seconda zappatura del terreno già arato. Una parte del lavoro (specie il diserbo dei seminativi) andava comunque condotto a mano. La zappa dunque poteva costituire un’alternativa non sostituibile all’aratro, là dove questo non poteva essere usato, per ragioni orografiche (terreni in forte pendio, aree montuose) o economiche (la zappa era l’ “aratro del povero” e del piccolo agricoltore); ovvero esso rappresentava una componente integrativa dell’aratro, completando l’opera di questo nella sarchiatura del terreno. La zappa era anche usata in appezzamenti troppo piccoli per sopportare l’aratura, e negli orti e nelle vigne. Mentre in Grecia la zappatura poteva essere svolta dall’agricoltore stesso e dai suoi familiari, a Roma, nelle grandi proprietà, essa era affidata alla manodopera schiavile. L’aratro a coltro (e poi a vomere) ha origini antiche, e in Italia si affermò a partire dall’età villanoviana (civiltà del ferro); in età romana, all’aratro tradizionale si affiancò l’aratro a ruote, di provenienza gallica. Di “invenzione” italica fu invece l’erpice (crates), in uso a partire dal I secolo d. C., usato sui campi seminati non a solchi, allo scopo di sminuzzare le zolle (in luogo della rottura manuale con la zappa), ricoprire la semente e sradicare le erbe infestanti. Malgrado l’efficacia inferiore rispetto all’intervento a zappa, l’erpice ebbe grande importanza economica in età imperiale, consentendo un forte risparmio di manodopera schiavile. Mentre nella cerealicoltura (specie nel caso dell’orzo) non era praticata, né praticabile un’efficace irrigazione, questa era indispensabile per l’orticoltura, col ricorso ad acque piovane immagazzinate (cisterne), ovvero a depositi naturali (pozzi), o al sollevamento di acque superficiali e al loro sversamento sui campi coltivati, a mano con la vite d’Archimede, o per mezzo di bilancieri. Là dove, come in Gallia Cisalpina, vi era larga disponibilità di acque fluviali o di risorgiva, veniva anche praticata l’inondazione regolata e permanente del prato irriguo (la futura “marcita” medievale e moderna, oggi non più in uso).

Malgrado le raccomandazioni di Catone (“prima arare, poi concimare”, stercorare), il mondo antico non conobbe concimazioni regolari tali da incrementare in maniera rilevante la produzione. La concimazione nell’agricoltura italica rimase al di sotto del 50% dei minimi dell’età moderna prima dell’introduzione dei concimi artificiali. La mancanza di stallatico veniva compensata, col sovescio (Grecia e Italia), col debbio (bruciatura delle stoppie: Gallia Cisalpina), o con spandimento di marna (Gallia). Ostacolava le possibilità di concimazione la limitata pratica dell’allevamento confinato (specie bovino), data l’assenza o l’insufficienza di piante foraggere per l’alimentazione del bestiame stabulato. Il bestiame reperiva il suo nutrimento sui pascoli liberi o nei boschi, quando non transumava durante la stagione estiva. Una limitata concimazione poteva aver luogo nei terreni a maggese, sui quali il pascolo, specie ovino, era liberamente praticato. La rotazione biennale a maggese era largamente praticata, per la cerealicoltura, sia in Grecia che in Italia, dove la pratica fu probabilmente importata dalla Grecia stessa attraverso la mediazione degli Etruschi (VIII-VI secolo). I campi a riposo andavano ripetutamente arati per impedire l’allignare delle erbe infestanti; ma era anche praticato il “maggese verde”, con avvicendamento fra i cereali e i legumi (esclusi i ceci), che ricostituivano, come agli antichi era noto, la fertilità del suolo. Il riposo a maggese poteva però risultare conveniente su superfici ampie e proprietà medio-grandi, a coltura estensiva; il piccolo proprietario, che disponesse solo di pochi ettari di terreno, non poteva concedersi il lusso di rinunciare ogni anno a metà del prodotto, con la conseguenza di un rapido esaurimento dei terreni.

Il ciclo cerealicolo si concludeva in giugno-luglio con la mietitura e la trebbiatura. La mietitura era praticata a mano, con falcetti, recidendo le piante, o alla base, o a metà stelo, o anche alla spiga; eccezionale fu l’uso della “mietitrice gallica”, una rudimentale “macchina agricola” spinta da asini o muli, che recideva le spighe raccogliendole nel contempo in un apposito cassone. Si trattò di una innovazione tecnologica in uso solo nelle regioni pianeggianti della Gallia settentrionale, a partire dall’età imperiale.

Per la trebbiatura dei cereali ci si avvaleva di un’aia (lat. area) in terra battuta, o lastricata in pietra, sulla quale avveniva, dapprima la sgranatura delle spighe tramite calpestazione animale (muli, bovini, cavalli) e battitura a mano con flagelli e correggiati; seguiva quindi la spulatura, che allontanava le paglie tramite la ventilazione naturale, o manuale, con vanni e ventilabri.

Complessivamente le rese dei seminativi rimasero molto basse e stazionarie durante tutta l’epoca greco-romana; in Grecia e Italia non vennero mai raggiunte le rese di 1:10 attestate per l’Egitto, dove il limo del Nilo rendava superflui concimazioni e maggesi; o addirittura rese di 1:12 o 1:15 attestate per la Mesopotamia. La resa media (rapporto semente : raccolto) in Grecia e Roma difficilmente superava il rapporto di 1 : 3; ciò significa che, accantonandone 1/3 per la semina successiva, il raccolto utile risultava non più del doppio del seminato. Nel migliore dei casi, veniva raggiunto a Roma un rapporto di 1 : 4. Del resto, ancora nell’alto medioevo, le rese non superavano l’1 : 3 per i cereali. Per superficie, si calcola che a Roma le rese produttive si aggirassero sui 10/1 q di cereale per ha.



Oddone Longo, 9 ottobre 2003 - In occasione del 250° Anniversario dei Georgofili


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